Il governo della transizione ecologica mette la rivoluzione verde in secondo piano.

di Luigi Mastrodonato

Dal sito di Wired Italia

Il governo della transizione ecologica mette la rivoluzione verde in secondo piano. 

È ciò che si evince dal Piano nazionale di ripresa e resilienza dove temi come la mobilità urbana e l’economia circolare non hanno lo spazio – e e quindi i fondi – che meritano.

Tra le più grandi novità del governo Draghi al momento del suo insediamento nel febbraio scorso si era imposta quella del neo-ministero della Transizione Ecologica, che avrebbe dovuto portare a una vera rivoluzione green per l’Italia. In realtà già nel discorso d’insediamento del ministro Roberto Cingolani diverse aspettative erano andate deluse, perché le sue parole erano sembrate troppo sconnesse dal presente, rivolte a un futuro lontanissimo senza che si facesse riferimento a quello più prossimo. A questo si aggiunge ora il Piano nazionale di ripresa e resilienza con cui ottenere i fondi europei per la ripresa, dove l’ecologia è sì centrale come da paletti di Bruxelles – con 70 miliardi di euro – ma non c’è traccia di quella svolta concreta che proprio dal Recovery Fund avrebbe dovuto trarre la sua linfa, anche solo da un punto di vista finanziario.

movimenti ambientalisti l’hanno ridefinito “ministero della Finzione ecologica“, fissando un cartello simile proprio all’ingresso del palazzo dove ha sede, a testimonianza di quanto siano rimasti delusi dal documento. Una delle parti che ha convinto meno è quella relativa alla mobilità urbana sostenibile, per il semplice fatto che è irrisoria. Le risorse sono indicate soprattutto per l’alta velocità e quindi il trasporto su rotaie, che di fatto significa ignorare quelle fabbriche di smog che sono le principali città italiane, come Milano che nel 2021 ha già esaurito tutti i giorni a disposizione con valori di pm10 superiori a quelli fissati dalle norme europee.

Che la mobilità green urbana non sia una priorità del nuovo governo lo ha confermato il ministro Cingolani in un’intervista Repubblica, dove dice che oggi non ha senso diffondere le auto elettriche perché una parte dell’energia usata per caricarle viene prodotta in modo inquinante. Un’affermazione vera se presa in termini assoluti, ma che perde di forza a livello relativo: un’automobile elettrica sarà sempre una migliore alternativa a una sua sorella a benzina, perché le eventuali extra-emissioni per la sua produzione saranno più che compensate dalle minori emissioni del suo ciclo di vita, come sottolineato anche da diversi studi.

Un modo per risolvere questa situazione, intervenendo a monte del problema e dunque sulla produzione elettrica per alimentarle, è di investire più che mai sulle energie rinnovabili. Un’automobile che “si nutre” di corrente prodotta da pale eoliche o pannelli solari non avrà più il problema delle emissioni legata alla produzione di energia fossile. Eppure anche dal punto di vista delle rinnovabili il Piano nazionale di ripresa e resilienza appare miope. In particolare, non vengono fissati paletti chiari con cui arrivare all’obiettivo dichiarato solo a parole di raggiungere il 72% dell’elettricità prodotta da fonti green nel 2030 e tutto di fatto viene demandato a riforme successive con cui sbloccare i mille ostacoli che da un decennio frenano le autorizzazioni a impianti rinnovabili. Si brancola nel buio, con una serie di interventi che non si sa quanto realmente potranno incidere nel raggiungimento degli obiettivi di energia pulita fissati a livello europeo e con un focus eccessivo sulle piccole comunità, lasciando da parte le aree urbane e più industrializzate.

Altre problematiche evidenziate dai movimenti ambientalisti riguardano il capitolo sull’economia circolare, focalizzato di fatto unicamente sul ciclo dei rifiuti; il biometano, non accompagnato da un piano agricolo serio di riduzione delle emissioni, con la definizione di agricoltura biologica che non compare mai; l’idrogeno blu, un assist all’unico che potrebbe produrlo, Eni, tramite i suoi pozzi esausti di gas. Accanto a questi ci sono poi anche aspetti positivi, come gli investimenti importanti previsti nella creazione di comunità energetiche (ma solo per i piccoli comuni), nell’agro-voltaico, nella realizzazione di impianti innovativi off-shore, in una enorme rete di piste ciclabili. Ma resta l’amaro in bocca, per un nuova ministero che doveva portare la rivoluzione green in Italia e che in questi primi tre mesi si è contraddistinto sempre per un comportamento agli estremi: o ideali utopistici e irrealizzabili, come nel discorso di insediamento di Cingolani, o misure che nulla hanno a che vedere con la tanta agognata transizione ecologica, come il rinnovo delle concessioni un po’ in tutta Italia per le trivellazioni sia su piattaforma sia onshore. La parte ecologica del Piano nazionale di ripresa e resilienza è allora una conferma di tutto questo: tra buone e cattive misure, per una reale transizione c’è ancora tanta strada da fare.

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