Il nuovo ordine mondiale di Trump: gli affari prima di tutto

Dal viaggio in Medio Oriente è emerso con chiarezza che la pace nell’ottica trumpiana è solo una condizione necessaria per fare profitto.

Il recente viaggio del presidente Trump in Medio Oriente ha finalmente chiarito qual è il piano geopolitico del presidente Usa: rifondare l’ordine mondiale su un unico principio guida, quello del profitto. La pace in questo quadro non è un valore in sé, ma solo una condizione necessaria per fare affari. E per questo non ha nulla a che fare con orpelli come libertà, giustizia, democrazia, diritti umani.

In questo schema, la guerra in Ucraina è un fastidio. Una seccatura che interrompe i flussi commerciali. Trump non ha mai avuto una reale considerazione per Zelensky, e lo ha platealmente dimostrato nell’incontro nello Studio Ovale. Negli ultimi tempi il tono è cambiato, certo. Ma non per convinzione. Solo perché anche Putin, dal canto suo, la tira per le lunghe e la pazienza di Trump ha un limite. Perché l’Ucraina, nel suo immaginario, è terra di opportunità: non a caso il primo e finora unico atto concreto è l’accordo sulle terre rare siglato qualche giorno fa. Ma per coglierle, queste opportunità, bisogna prima mettere a tacere le armi. Non importa a quale prezzo. Se per arrivarci l’Ucraina deve rinunciare a larga parte del suo territorio e a larga parte della sua sovranità, pazienza.

Con lo stesso schema si può interpretare la normalizzazione dei rapporti con la Siria. La stretta di mano con al-Shara, il nuovo presidente siriano, ex membro al-Qaeda con tanto di taglia sulla testa, è una dichiarazione d’intenti: poco importa se è un fondamentalista islamico che ha già dimostrato come la strada verso la democrazia sia tutta in salita; se può stabilizzare il territorio quel tanto che basta per riaprire i traffici economici e commerciali, allora diventa un interlocutore. La sospensione delle sanzioni alla Siria è comunque una buona notizia perché le sanzioni colpiscono in gran parte soprattutto la popolazione e una normalizzazione dei rapporti può portare sollievo a chi ha pagato un prezzo altissimo per una lunga guerra civile. Ma sarebbe auspicabile legare quella normalizzazione a un minimo di rispetto dei diritti umani. Non è questo, però, l’orizzonte di Trump. Per lui il rispetto si misura in margini di profitto, non in princìpi.

Israele, infine. Netanyahu, irritato, ha dovuto incassare la mancata visita di Trump durante il suo tour in Medio Oriente. Un segnale chiaro. E non è il primo: basti pensare agli accordi separati con gli Houthi nel Mar Rosso e alla trattativa diretta con Hamas per il rilascio dell’ostaggio statunitense. Ma anche qui, niente a che fare con qualche principio etico-politico. Il punto è che a Trump la guerra infinita che Netanyahu sta portando avanti contro Gaza non interessa. Al contrario di Trump, Netanyahu un progetto ce l’ha: quello della “Grande Israele”, che prevede la cancellazione della Palestina, e con essa anche dei palestinesi. A Trump però non interessa né della Grande Israele, né tantomeno del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi. Gli interessa che si possa tornare a fare affari anche in quell’area.

Insomma, l’intero impianto geopolitico di Trump si fonda su questa idea: la politica estera come estensione del portafoglio. La guerra, si dice spesso, è un grande affare. Ma è solo parzialmente vero. È un affare per i produttori di armi, per i contractor, per alcuni settori strategici, certo. Ma per molti altri settori – dal commercio al turismo, dal manifatturiero alla logistica – la guerra è un ostacolo. E Trump parla a questi settori, quelli che vogliono ordine. Anche se costruito sulle macerie del diritto internazionale e della democrazia.

DI Cinzia Sciuto

16 Maggio 2025

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