Il mondo delle fake news

di Gabriela Jacomella
autrice del libro Il falso e il vero. Fake news: che cosa sono, chi ci guadagna, come evitarle edito da Feltrinelli: cosa sono e come nascono le fake news?
dal sito Letture.org

Innanzitutto, una premessa: usiamo per comodità il termine fake news, oppure quello di “bufale”, che ormai sono diventati una specie di passepartout per indicare un fenomeno globale. Ma il rischio è quello di una semplificazione eccessiva: dietro a questa definizione generale si nascondono, infatti, tanti tipi di “informazione avariata”. Ci sono le notizie false vere e proprie, inventate di sana pianta, ma anche quelle distorte, con un uso parziale dei dati o con titoli che annunciano qualcosa che non corrisponde al contenuto dell’articolo. Nelle “bufale” possiamo far rientrare anche alcune creazioni satiriche, che però hanno la peculiarità di fornire degli indizi chiari, disseminati qua e là, per far capire a chi legge che si tratta non di una notizia vera, bensì di una presa in giro (e difatti la satira fatta bene, come ad esempio quella di Lercio, può essere usata come provocazione per farci riflettere sul problema della cattiva informazione e della nostra creduloneria…). La definizione che preferisco, e di cui parlo nel libro, è quella – proposta dalla ricercatrice Claire Wardle – che distingue tra misinformazione e disinformazione. Con la prima, intendiamo la diffusione di notizie scorrette (da quelle totalmente sbagliate, a quelle distorte o fuorvianti) senza che ci sia da parte del “diffusore” la consapevolezza della loro falsità, o la volontà di danneggiare gli altri. La seconda, invece, identifica la creazione e condivisione deliberata di notizie che si sa essere false. E questo ci porta al passo successivo, cioè la scoperta di come, dentro il grande contenitore delle fake news, ci siano anche tanti tipi di motivazioni diverse che hanno portato alla loro creazione: economiche, di propaganda, o il caro vecchio “per vedere l’effetto che fa”…

Chi crea le fake news e per quali ragioni?
Come dicevamo prima, possiamo avere tanti tipi di “bufalari” quante sono le tipologie di bufale. C’è chi, semplicemente, ha capito che si tratta di un modo tutto sommato facile di fare quattro soldi (o anche di più), grazie alle inserzioni pubblicitarie su siti e pagine social. Il meccanismo è sempre lo stesso: più like e click attiri, più sarai appetibile per gli inserzionisti. Ed è così che parte la gara alla notizia più sconvolgente, alla foto che scatena più indignazione e condivisioni. Perché questo, in fondo, è il meccanismo su cui fa leva il fenomeno delle fake news: colpirci al basso ventre, farci arrabbiare, giocare sulle nostre emozioni più viscerali. In questo modo, gli “scudi” di autodifesa che normalmente sarebbero bene alzati – il dubbio, il senso critico, tutte le armi razionali che ci fanno diffidare in maniera sana da un’informazione non verificata – si abbassano per quel tanto di tempo sufficiente a farci condividere e rilanciare senza riflettere. E così, la bufala prosegue indisturbata il suo corso. Questo è altrettanto vero (e pericoloso) quando prendiamo in esame altre tipologie di bufale, quelle nate con scopo di propaganda (politica o ideologica che sia, non fa differenza): il fatto di simpatizzare con certe posizioni ci rende più vulnerabili e ciechi di fronte alla condivisione di notizie forzate o totalmente irreali, quando appunto provengono da gruppi o persone a noi affini. Chi crea le fake news, che lo faccia con scopi economici o di diffusione di idee, pregiudizi, mezze verità, conta proprio su questo: la nostra reazione istintiva, e il nostro trasformarci in veicoli di trasmissione e rilancio della loro “informazione avariata”. Diventiamo così complici, senza neanche rendercene conto.

In che modo è possibile riconoscere le fake news?
Ci sono, ovviamente, molte strategie, dalle più semplici alle più tecniche (così come ci sono livelli crescenti di complessità e astuzia da parte dei creatori di bufale). I titoli “urlati”, gli errori grossolani di ortografia e grammatica, un uso smodato delle maiuscole, le foto “ritoccate” sono tutte spie d’allarme. Salendo di livello, è bene tenere d’occhio l’URL (cioè l’indirizzo) del sito: a volte i bufalari giocano su assonanze e modifiche dei nomi di testate ufficiali – come nel caso stranoto del Fatto QuotiDAINO – per giocare sulla nostra tendenza a condividere senza neanche cliccare sul link, che una volta aperto si sarebbe invece svelato per ciò che è, non una testata nazionale ma un sito acchiappa-click che si spaccia per quotidiano di informazione. Ci sono poi gli articoli che riportano dati, sondaggi e commenti senza riferirne le fonti, mentre una delle regole del buon giornalismo sarebbe proprio quella di rendere sempre chiaro quali siano i riferimenti da cui provengono le notizie o le analisi. E nel caso delle fonti, è anche opportuno controllare che siano ciò che dicono di essere, e che dietro a quel titolo di professore o di esperto ci sia effettivamente una persona qualificata per esprimersi su un dato argomento (e non un finto esperto, laureato in una università inesistente…). In conclusione a Il falso e il vero ho inserito un decalogo molto semplice, che ci può aiutare a smascherare una buona fetta delle bufale in circolazione sui nostri social. E la buona notizia è che non serve essere tecnici informatici per imparare ad applicarlo!

Il tema delle fake news richiama l’attenzione sull’uso distorto e inconsapevole del web: quali i rischi e come difendersi?
Una premessa: la Rete, non dimentichiamocelo, è una grande risorsa. Il suo avvento ha ampliato in maniera incredibile gli orizzonti della nostra conoscenza. Ma è sempre più necessario sviluppare gli strumenti che ci possono rendere capaci di utilizzarla al meglio. È un po’ come ritrovarsi al timone di un vascello che, da uno specchio d’acqua chiuso e con poche correnti, tutto d’un tratto ha a disposizione un oceano sterminato da esplorare. Bisogna imparare a leggere carte nuove, a seguire i venti, ad evitare gli scogli e il richiamo delle sirene. Altrimenti saremo sempre in balia di forze strane e sconosciute, sballottati da tempeste e uragani. L’informazione digitale è come un oceano. Le fake news sono i detriti che ostacolano la buona navigazione. È nell’interesse di tutti cercare di limitarne la diffusione, per poter usufruire di un’informazione “pulita”, chiara, verificata, accessibile. Utilizzare il nostro spirito critico, tenerlo in addestramento, affinarlo, è lo strumento migliore per difenderci da chi vuole utilizzare il Web per manipolare le nostre opinioni, per allontanarci dalla pratica quotidiana dei nostri diritti di cittadini, per trasformare le nostre società democratiche basate sul dialogo in luoghi di scontro e lite perenne tra fazioni inconciliabili tra loro.

È possibile educare i giovani ad un uso consapevole del web?
Dirò di più: non solo è possibile, è necessario. Perché la scuola è il momento in cui, forse per l’ultima volta nella vita, ci troviamo tutti riuniti e messi nella condizione di poter ragionare insieme sul mondo che ci circonda. È il luogo perfetto in cui lavorare, insieme, su un approccio critico all’informazione. E le ragazze e i ragazzi non hanno voglia di essere fregati, non hanno bisogno di sentirsi dire da qualcuno come pensarla, non amano (come del resto gli adulti) un approccio paternalistico che li indirizzi verso ciò che altri ritengono sia “vero” o “falso”. Quello di cui hanno bisogno è di confrontarsi con interlocutori che non abbiano paura di raccontare rischi e potenzialità di uno strumento – la Rete – che è ormai entrato a far parte del nostro quotidiano, senza demonizzarlo né esaltarlo, ma semplicemente spiegando come possiamo usarlo nel modo migliore per diventare cittadini indipendenti, responsabili, critici.

Viviamo nell’era della post-verità: quali le implicazioni per la società e la nostra vita quotidiana?
Se con post-verità intendiamo la scomparsa della verità (o, per meglio dire, quello che di più vicino alla verità si sia riuscito a stabilire) dal mondo dell’informazione, be’, ci stiamo sbagliando. Il fenomeno a cui stiamo assistendo è la tendenza di una buona parte dell’opinione pubblica ad affidarsi alle emozioni e alle opinioni più che ai dati e ai fatti, anche e soprattutto quando ci si trova a dover prendere delle scelte in ambito personale o pubblico. E la Rete è fatta in modo tale da enfatizzare questa tendenza, spingendo le persone a ricercare il conforto dei gruppi di amici o di utenti che condividono posizioni e ideologie simili, restando così intrappolati nelle nostre “bolle di filtraggio” e perdendo la capacità di confrontarci con universi di pensiero diversi dal nostro. È sempre più necessario, anche per la tenuta della nostra società democratica, riflettere su questi meccanismi ed escogitare modalità per aggirarli e per limitare la loro influenza sulla nostra vita. Il piccolo manuale che ho scritto è, in buona parte, una guida alla comprensione di tutto quanto si cela dietro al fenomeno delle fake news, e a come queste strutture di pensiero e di conoscenza possano influire su tutta una rete di contatti e relazioni che non è più soltanto digitale o virtuale, ma molto “fisica”e con effetti concreti sulla nostra esistenza.

Quale futuro per l’informazione in Rete?
Questa è la domanda da un milione, anzi un miliardo, di dollari, quella cui tutti vorremmo saper rispondere. Ovviamente le teorie sono molteplici, e si va dagli iper ottimisti ai pessimisti. Io mi colloco, per così dire, nel mezzo. Quello di cui sono convinta è piuttosto la necessità di investire non tanto su interventi draconiani di censura e punizione per quanto riguarda l’informazione in Rete, bensì sulla ricerca. Sappiamo ancora poco dei meccanismi sottesi alla conoscenza digitale, così come in fondo poco abbiamo potuto esaminare le dinamiche di diffusione delle fake news, il loro comportamento, il loro uso ed abuso. Sono fenomeni assai complessi, che coinvolgono moltissimi aspetti dell’analisi dei cosiddetti big data, della tecnologia, ma anche del pensiero filosofico e delle scienze umane. Nel corso dell’anno che sto trascorrendo alla School of Transnational Governance dell’Istituto Universitario Europeo di Firenze mi prefiggo, appunto, di portare il mio piccolo contributo in questo senso. Ma servirebbe una consapevolezza più diffusa, anche da parte delle istituzioni, della necessità di un momento di analisi e riflessione collettive. Non è con gli interventi drastici e precipitosi che risolveremo il problema delle fake news. Anzi, il rischio è che avvenga esattamente il contrario.

 

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